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Dott.ssa Chiara Pacifici

Intervista a cura di Aurora

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Ci potrebbe spiegare nel dettaglio di che cosa si occupa Amnesty International?

Possiamo definirci come un movimento di persone determinate a creare un mondo più giusto, in cui ognuno possa godere dei diritti umani sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Quindi il nostro lavoro, nello specifico, consiste nel mettere in evidenza le ingiustizie, dare voce a chi non la possiede e ridare la libertà e la dignità a quelle persone che sono vittime di violazione dei diritti umani. Sono più di 50.000 le persone che Amnesty International ha contribuito a liberare e a cui ha contribuito a ridare la libertà, salvando tre vite al giorno. La nostra associazione nasce nel 1961 quando un giorno un avvocato inglese Peter Benenson lesse sul giornale che due studenti portoghesi erano stati imprigionati per aver brindato alla fine delle colonie. Loro sono i primi due prigionieri di coscienza di cui si è occupata Amnesty International perché Peter Benenson provò, ritenendo che questa fosse un'ingiustizia, una forte indignazione. Fu proprio grazie a lui che le cose iniziarono a cambiare. Dopo aver scritto una lettera in difesa dei due ragazzi e averla pubblicata sul giornale, essa riscosse l’appoggio di un gran numero di persone e grazie a questo gesto nacque l’idea di Amnesty International. Ci occupiamo di molte cose: facciamo educazione sui diritti umani, pressione sui governi affinché approvino leggi in linea con la dichiarazione universale dei diritti umani (OBI) e comunicazione; ma ancora rimane forte l’idea di liberare le persone che sono state ingiustamente imprigionate. Amnesty International si pone anche l'obiettivo di ricordare al governo di rispettare le convenzioni soprattutto in materia di diritti umani. Poi ci muoviamo affinché i giovani e le giovani si mobilitino per sfidare gli stereotipi di genere, lavoriamo con le associazioni che operano per la tutela dei diritti umani che portano a loro volta attività di sensibilizzazione contro la violenza e infine facciamo pressione sui mass media i quali dovrebbero orientare l’opinione pubblica verso la politica del consenso.

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Qual è lo scopo principale del progetto #IoLoChiedo, nel quale si inserisce in parte la nostra iniziativa?

Attraverso la campagna #IoLoChiedo vogliamo chiarire il tema del consenso all’interno dei rapporti sessuali e diffondere la cultura del consenso come strumento per la parità di genere. Vorremmo si capisse che se una persona – una donna, in particolar modo – non si dichiara favorevole o comunica di aver cambiato idea circa la possibilità di concludere il rapporto, nel caso in cui il partner prosegua allora si tratta di violenza. Questo costituisce un reato e come tale dovrebbe essere punito. Sembra scontato il tema del consenso, ma purtroppo a tutt’oggi non è così. Nel nostro Paese, ad esempio, se una vittima di violenza ha taciuto durante il rapporto viene dato per scontato che fosse consenziente, ma questo non tiene conto del fatto che ci potrebbero essere situazioni in cui le vittime non sono in grado di difendersi o ribellarsi, dunque non è sempre vero che chi tace acconsente! Con questa campagna ci poniamo l’obiettivo di creare una cultura del consenso collettiva, diffusa sia a livello giuridico che nella società civile. Vogliamo informare e sensibilizzare l’opinione pubblica per quanto riguarda la questione del consenso, precisando sempre che senza il consenso esplicito si va incontro a delle violazioni il tutto per giungere all’obiettivo di vivere in una società basata sulla parità, sul rispetto reciproco, libera dalla violenza sessuale.

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Lei durante la sua carriera lavorativa è mai stata soggetta a degli stereotipi che l’hanno fatta sentire diversa rispetto ai suoi colleghi?

Sì, moltissime volte. Purtroppo il mondo del lavoro in Italia è ancora intriso di stereotipi di genere e quindi più volte mi è capitato di partecipare a riunioni, a volte anche importanti, in cui arrivati al punto del break era sempre una donna a doversi alzare per andare a prendere il caffè, o a servire il caffè, anche se la donna stessa si trovava alla pari o addirittura ad un livello più alto rispetto ai propri colleghi. Alcune decisioni, anche importanti, vengono prese in momenti informali come pause pranzo o aperitivi serali, che sono tutte situazioni a cui molte donne non possono partecipare per via dell’impegno di cura (figli, casa, famiglia) che devono portare avanti oltre al lavoro. Per quanto riguarda la mia esperienza, quando ho avuto il mio secondo figlio mi sono presa un part time (invece che 8 ore ne lavoravo 6) e per molto tempo mi sono dovuta giustificare perché non potevo essere presente alle riunioni al pomeriggio. Mi sentivo in colpa per questo, quando invece era chi stabiliva la riunione a dover scegliere un orario in cui tutti potevano essere presenti. Un’altra brutta abitudine in cui si incappa frequentemente sul posto di lavoro è che quando un uomo si arrabbia si pensa che sicuramente avrà i suoi motivi, mentre quando si arrabbia una donna o è in menopausa o ha il ciclo! Bisogna pertanto stare molto attenti agli stereotipi di genere, dobbiamo essere in grado di riconoscerli e soprattutto farli notare, perché finché rimangono tali il loro effetto potrebbe essere ancora arginabile. Il vero problema si presenta quando si trasformano in pregiudizio e ancora quando si passa alla discriminazione, perché il passo verso la violenza di genere a quel punto è molto breve. E questa educazione dovrebbe essere fatta fin dalla giovane età.

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Che opinione possiede riguardo le disuguaglianze che nascono a causa degli stereotipi di genere?

Naturalmente possiedo una pessima opinione! In Italia le donne rappresentano la maggior parte dei laureati e i loro voti sono in percentuale migliori di quelli degli uomini, ma nonostante ciò i posti di comando sono ancora riservati soprattutto ai maschi. Inoltre, permane ancora un gap salariale (NdR. differenza di retribuzione maschile e femminile) molto ampio rispetto alle retribuzioni. Anche se la situazione è molto difficile e il cammino è ancora molto lungo, in particolare nel nostro Paese, possiamo affermare che sono stati fatti dei passi avanti.

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Secondo Lei, qual è la cosa migliore che potrebbe essere fatta per eliminare le disuguaglianze di genere?

Bisognerebbe agire su diversi livelli. Da una parte sulle leggi, perché occorre tutelare i diritti delle donne e le pari opportunità. Diciamo che se noi applicassimo i principi della Dichiarazione universale dei diritti umani e della nostra Costituzione già avremmo risolto la maggior parte dei problemi. Però questo non accade e pertanto occorre tenere alta l’attenzione pubblica, facendo sì che vengano approvate norme che eliminino le disuguaglianze. Allo stesso tempo bisognerebbe lavorare sulla società civile, ciò informare, educare e sensibilizzare su questi temi. Ad esempio, se una donna per la maternità prende 5 mesi di permesso, si potrebbero concedere altrettanti mesi anche agli uomini oppure rendere il congedo parentale obbligatorio per entrambi. Un’altra cosa che si potrebbe fare è aumentare il numero degli asili nido e renderli gratuiti, magari strutturando nidi aziendali. Questo renderebbe il ritorno al lavoro per la madre più semplice. Tutto ciò è necessario anche perché le donne, che spesso possiedono stipendi inferiori rispetto agli uomini, quando in una famiglia si decide chi dovrebbe lasciare il lavoro per dedicarsi ai figli viene considerata per questo motivo “sacrificabile”. Lo Stato, poi, dovrebbe supportare le donne nel lavoro di cura domestico, che è ancora per la maggior parte sulle loro spalle. Se avessero più tempo per se stesse magari potrebbero dedicarsi di più allo sviluppo del proprio potenziale, con ricadute positive su tutta la società. Anche le quote rosa, per me, possono essere utili. In un mondo perfetto non esisterebbero, ma in quello in cui viviamo possono contribuire a ridurre le disuguaglianze.

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Perché è importante portare la riflessione sui diritti umani a scuola?

Ritengo che questo sia fondamentale e importantissimo per tutti. Penso che sia necessario educare bambini e bambine fin da piccoli a riconoscere gli stereotipi e a liberarsene, perché questi insieme ai pregiudizi e alle discriminazioni sono alla base di quella che viene chiamata “la piramide dell’odio”, che poi può degenerare in violenza e violazione dei diritti umani. Amnesty International si ispira ai principi della Dichiarazione universale dei diritti umani e, in questo caso, all’Art 2 della nostra Costituzione, nella quale si enuncia proprio il principio di non discriminazione. Oltre a combattere gli stereotipi di genere quando si verificano è necessario comprendere che alla base dello stereotipo c’è l’idea di voler sovrastare una persona, il pensare che questa sia inferiore per qualche motivo. Ci si sente giustificati nel comportarsi così e quindi il rischio è che chi viene discriminato vedrà violati non solo uno, ma molti altri diritti.

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